Indubbiamente non ha
bisogno d'alcuna dimostrazione l'affermazione che vuole lo Stato unitario
italiano, fondato nel 1861 per volontà inglese e con le armi
francesi, un completo fallimento quanto alla sua parte meridionale.
Non si tratta di un'opinione, ma di un'evidenza. Tutti, italiani o stranieri,
meridionali o settentrionali, studiosi e gente comune, non debbono fare
altro che prenderne atto. Lo stesso Stato ne dà atto da sempre,
fin dalla famosa relazione Massari sul brigantaggio, credo del 1863.
Il fatto, poi, che, a partire dal miracolo economico italiano (1958/1965
circa), il paese tosco-padano abbia raggiunto una ragguardevole condizione
di sviluppo non comporta, né per il senso comune né in
termini di teoria dello sviluppo che, prima o poi, tale condizione si
estenda automaticamente al Paese napoletano, alla Sicilia e alla Sardegna.
Sì, perché, dopo il totale fallimento dell'intervento
pubblico, la lingua dei governanti si è asciugata e siamo arrivati
agli automatismi. Però, fallimentare o meno, l'intervento pubblico
si traduceva in qualcosa di tangibile, mentre gli automatismi sono meno
che cortine fumogene. Al tempo in cui ero un ragazzino c'era il Duce,
l'uomo della provvidenza. Ebbene, il Duce, nonostante il padreterno
carisma, prima di proclamare urbi et orbi che Lui, e solo Lui, avrebbe
finalmente risolto la questione meridionale, aveva dovuto se non altro
far costruire qualche centinaio di case coloniche e tre laghetti artificiali
per dare la corrente elettrica alla Calabria e alla Puglia. Anche Fanfani,
Cassiani, Pastore, Mancini avevano padreterne benevolenze, e tuttavia
anche loro, mentre affermavano che finalmente la questione meridionale
sarebbe stata risolta, si davano da fare per costruire delle strade
e degli acquedotti, e per assicurare la pensione di vecchiaia ai contadini.
Oggi - sarà forse per sobrietà di carattere o forse soltanto
per una serena fiducia in Dio - i politici promettono che alla fine
beccheranno un giapponese che ci farà il Ponte. Quanto all'autostrada,
nessuna preoccupazione. Non abbiamo forse l'ingerner Mesiti, facitore
di autostrade? Credo, per giunta, che la gente sia pienamente soddisfatta.
Non chiediamo altro che il Ponte e un allargamento dell'autostrada.
Quanto al resto, ognun per sé e Dio per tutti.
Personalmente inclino al peggio. Sono convinto che qualche anno ancora,
e poi, una volta chiuso l'attuale flusso virtuoso delle pensioni, che
il nonno incassa e che i figli e i nipoti spendono, il Sud imploderà
al primo urto, come le Torri Gemelle, trascinando con sé, nel
crollo, anche ciò che indichiamo con la parola Nord. Non so dire
se detto coinvolgimento sarà un nuovo caso di carducciana nemesi
storica, e neppure so se l'idea di un generale sfascio mi dà
qualche soddisfazione. Ma qualcosa la so di certo. Negli anni settanta/ottanta,
alcuni storici e più di un economista si sono presa la briga
di studiare le reazioni che il meridione aveva registrato a ogni azione
prodotta nel settentrione, e viceversa. Quanta parte del merito del
miracolo economico padano spettava alla spesa pubblica effettuata sotto
la voce Cassa per il Mezzogiorno? I pesi e i costi, che il paese meridionale
aveva sopportato e sopportava, come interfaccia pagante dello sviluppo
toscopadano - sostenevano costoro - andavano controbilanciati a dir
poco con provvedimenti del tipo ammortizzatori sociali.
Al presente, siamo più liberal e questa teoria è stata
abbandonata. Bisognava a tutti costi entrare in Europa. Il taumaturgo
Ciampi, il luminare Prodi, Giuliano Amato, unto dal Signore, svalutata
la lira, procedettero. I compensi sono finiti Per l'Italia disoccupata
non c'è altra prospettiva che la fine della Traviata, la quale,
poveretta, un qualche compenso l'avrebbe pur avuto se fosse riuscita
a raggiungere di Provenza il Mar. Ma l'avverso Destino non volle. La
poverina morì prima di potervisi bagnare i piedi. Per l'Italia
disoccupata, l'unico compenso ancora in essere è il presidente
Ciampi, il quale innalza inni al cielo come se fossero messe in suffragio
dell'anima. Personalmente dubito che porteranno celesti indulgenze a
chi è morto lontano dalla sua terra, soffocato dalla nostalgia
e maledicendo re e presidenti.
Il dire e non dire, l'insorgere e contemporaneamente il piegarsi, questo
incolparsi senza espiare, questo rimandare alle calende greche, questo
sgraffignare con la mano sinistra, mentre il palmo della mano destra
resta aperto, come per un saluto romano, ad attestare le mani pulite,
questo salmodiare in suffragio dell'anima, si chiama Italia. A noi spetta
contestarla.
Sin dal tempo in cui Francesco Saverio Nitti predispose e impose una
forma d'intervento speciale per Napoli (1904), la classe politica meridionale
annacqua il vino. Il Sud italiano, o per meglio dire, due paesi che
da ben mille e quattrocento anni presentano un'identità culturale
ben precisa, la Sicilia e il Napoletano, non hanno bisogno d'alcun intervento
speciale. Basterebbe che loro (gli eroi del penoso raggiro che ha mortificato
il nome d'Italia) se ne andassero e il Sud risorgimenterebbe dalla sera
alla mattina.
Ancor prima che venisse proclamata l'unità nel marzo del 1861,
la truffa nazionale era già evidente. Ad attestarlo ci sono dei
fatti precisi. Ne ricordo alcuni soltanto. Primo: mentre il governo
di Torino stava pensando a come chiudere il regio Banco delle Due Sicilie,
un gruppo di ricchi mercanti napoletani chiese a Cavour di essere autorizzato
ad aprire una banca d'emissione con 100 milioni di capitale (cioè
due volte più grossa della banca d'emissione di Genova e Torino).
Cavour non autorizzò, e i patrioti ancora ci debbono spiegare
il perché del (sicuramente nobile) diniego. Secondo: l'imposizione,
anch'essa cavouriuana, della tariffa sarda alle ex Due Sicilie. Fu una
misura talmente negativa che persino la storiografia più ligia
all'unità la giudica causa principale del crollo alla radice
dell'intero sistema industriale e manifatturiero del paese meridionale.
Terzo: la decapitazione di Napoli e Palermo, città capitali,
e la parificazione delle uniche metropoli italiane a Cuneo e a Vercelli:
peggio di due eruzioni del Vesuvio e di quattro terremoti di Messina.
Quarto: la risoluzione di combattere la rivolta nelle campagne napoletane
con il ferro e con il fuoco, cioè allo stesso modo dei generali
di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat. Quinto: la negazione degli
stessi vantaggi di cui godeva Genova alla marina mercantile duosiciliana,
dodicimila velieri e numerosi vapori, a cui precedentemente il governo
borbonico assicurava benefici pari a quelli di cui godevano le marine
d'Inghilterra e di Francia.
Incidentalmente, vorrei ricordare che dopo queste misure la Casa di
don Carlo Rothschild, che s'era impiantata a Napoli al tempo dell'occupazione
austriaca, e che vi aveva sviluppato importanti attività creditizie,
tagliò i ponti e si trasferì credo a Londra.
Morto Cavour nel giugno dello stesso 1861, i suo successori e aventi
causa moltiplicarono l'insultante opera di devastazione. I beni della
Chiesa, costituenti non il valore attribuito di circa mezzo miliardo,
ma un valore effettivo di oltre un miliardo e mezzo (in un tempo in
cui il bilancio annuale dello stato italiano non toccava i 160 milioni),
vennero praticamente regalati a una società di profittatori del
regime, alla cui testa c'erano i vecchi sodali di Cavour Giuseppe Balduino,
Pietro Bastogi e Carlo Bombrini. Fu lo scjalo. L'identico scjalo che
la speculazione tosco-padana già aveva instaurato con le ferrovie
meridionali e con il monopolio dei tabacchi, e che di lì a non
molto prolungherà con le società di navigazione, con le
acciaierie e la cantieristica navale. In tale turbinio di imbrogli,
il governo torinese riuscì anche a chiudere l'officina di Pietrarsa
che, nel 1863, il direttore del ministero dell'industria, il milanese
ingegner Giuseppe Colombo (futuro fondatore della società elettrica
Edison) giudicò essere l'unico impianto esistente in Italia atto
a produrre materiale ferroviario. Riuscì anche a chiudere la
fonderia della Ferdinandea e le officine meccaniche di Mongiana affermando
che il loro esercizio era antieconomico. La cosa era tanto vera che,
una ventina d' anni dopo, il patrio governo le regalò al sedicente
conte Breda, un mangione ancora non noto al tempo di Cavaour, il quale
le usò per fondare l'italica acciaieria di Terni, di cui l'impareggiabile
patrio ammiraglio, Benedetto Brin, seppe fare un'elegante voragine di
soldi pubblici. In ciò seguito dall'imparziale e finalmente democratico
governo di Giovanni Giolitti, questa volta, però, con i dollari
che gli emigrati mandavano da New York.
Ma, in verità, la spoliazione del visibile non fu il costo maggiore.
Quest'ultimo si configurò nel corso degli anni e si realizzò
(uno) con il drenaggio dell'argento meridionale, in cui era incorporato
il capitale commerciale del paese duosiciliano, e (due) con l'indebitamento
dei meridionali a futura memoria.
Il meccanismo ha il sapore di una di quelle scaltrite truffe per cui
vanno celebri le Maghe di Milano, e tuttavia rappresenta una delle autentiche
patrie glorie. Fatta l'Italia, il Galantuomo, quello che voleva fare
gli italiani senza neppure saperne la lingua, il figlio non primogenito
di un povero macellaio fiorentino, che lo aveva ceduto per poche lire
ai Savoia, prese a spendere cifre inaudite per comprare cannoni e corazzate.
Qualche anno dopo, l'indebitamento pubblico superava i quattro miliardi
e mezzo. Come se l'Italia di oggi non avesse due milioni di miliardi
di debito pubblico, ma venti milioni di miliardi (il conto in euro lo
faccia Ciampi). Il capitalismo padano (o italiano, che dir si voglia)
non è nato producendo, ma fregando lo stato. Il quale, peraltro,
era nato proprio con la funzione esplicita d'arricchire Lor Signori.
Ascoltate come. Vi assicuro che non si tratta di una favola. Le cartelle
del tesoro ( i Bot del tempo) erano la promessa di pagare cento lire
alla scadenza, più un interesse annuo del cinque per cento. Siccome
la fiducia in uno stato, nato già pesantemente indebitato, era
scarsa, le cartelle venivano collocate sul mercato con lo sconto: cinquanta
lire invece che cento. A comprarle non erano tanto i privati quanto
le banche private. Comunque sia, al prezzo di cinquanta lire, l'interesse
annuo effettivo non era più del cinque per cento, ma del dieci
per cento. Il guadagno era grosso, e non finiva lì. Per spiegare
il marchingegno, è opportuno premettere che la moneta ufficiale
era la lira d'oro o d'argento. Però, in circolazione, d'oro e
d'argento c'era ormai ben poco. Solo i duosiciliani opponevano una resistenza
tardiva allo scippo dei loro ducati d'argento, ovviamente di (detestato)
conio borbonico. La circolazione effettiva era costituita da banconote
fiduciarie emesse dalla Banca nazionale - un'istituzione che volle rimanere
privata - alla quale nel 1866 il governo (anzi il patriota napoletano
professor Antonio Scialoja, ministro delle finanze in Torino) aveva
accordato il corso forzoso, cioè la facoltà (per la Banca
Nazionale) di non convertire in lire metalliche i suoi biglietti. Biglietti
che peraltro neanche i padani volevano, tant'è che, sulla piazza
di Milano, per avere 100 lire oro bisogna dare 125 in biglietti della
Nazionale.
Questa patriottica istituzione (dico la Banca Nazionale), pupilla degli
occhi del Conte, nostro patrio padre, era l'unica a sapere come sarebbe
finita. Più carta avrebbe emesso, più ricca si sarebbe
ritrovata. Cosicché faceva di tutto per aiutare lo stato a indebitarsi.
Lo faceva in questo modo: anticipava 100 lire in biglietti a chi le
lasciava in deposito una cartella del debito pubblico, che in effetti
ne valeva solo cinquanta. Chi aveva ottenuto le cento lire, di cartelle
ne comprava due (lire 50 ciascuna) e le riportava in Banca per ottenere
200 lire in prestito. Le quali 200 lire, spese nuovamente, acquistavano
quattro cartelle. La magia continuava: otto, sedici, trantadue… xn.
Avendo speso 50 lire, al quinto giro si avevano già 800 lire
di credito verso lo stato, più 40 lire annue d'interesse. Insomma,
una catena di Sant'Antonio in piena regola. Alle spalle del contribuente.
Ad arricchire, anzi a diventare i veri padroni dello stato nazionale
italiano, furono la Banca Nazionale e i suoi consorti padani.
Ovviamente furono gli italiani a pagare la vertiginosa cifra ascendente,
sul finire del secolo, a ben 13 miliardi in conto capitale e a poco
meno di un miliardo di interessi annui (al tempo in cui un pane costava
trenta centesimi). Ma quali italiani? Quei poveri disgraziati che, come
racconta Nitti, erano costretti a emigrare perché il peso delle
tasse sabaude aveva tolto loro il pane di bocca.
F.S. Nitti, che pure lo sapeva meglio di chiunque, non ci informa invece
che con le loro rimesse in valuta, quei poveracci, oltre a pagare il
debito pubblico, spingevano in su il cambio della lira, tanto da portarla
a un apprezzamento del cinque per cento sul franco francese. La qual
cosa consentì ai signori Agnelli, Pirelli, Perrone, Falk e ad
altri Loro Eccellentissimi Colleghi di procurasi macchine e impianti
moderni in Inghilterra, Germania e Stati Uniti.
Il contributo del povero Sud alla formazione del capitalismo padano
è stato notevolmente più alto che quello del ricco Nord.
Il tutto in cambio di calci dove il sol non luce.
°°°°
Terronia veramente Felix? La nostra terra appare
felice solo nella nostalgia. Ho fatto a due riprese l'esperienza dell'emigrato.
La prima verità è che l'amiamo, la seconda verità è
che, se ci troviamo a vivere nel resto d'Italia, ci sentiamo stranieri.
La nostra terra è resa scintillante dal sole che brucia i campi mietuti.
Soltanto in pieno inverno e al principio della primavera l'arsura del giallo
s'ammorbidisce. Dove i campi sono margi crescono cespugli che emanano un
odore non artefatto, aspro e al tempo stesso gentile. Tornando in paese,
appena il treno entrava nella Strettoia di Marcellinara, verso le cinque
del mattino, il profumo mi svegliava e io m'attaccavo al finestrino abbassato
per affogarci le narici, e sporgevo gli occhi in attesa di vedere all'orizzonte
il profilo del Jonio, che mi aspettava. Ma abbracciata la madre e approdato
in piazza, lo schifo tornava. L'esistenza ammuffita dell'urbano, che non
ha soldi da spendere per riempire l'ozio forzato, vermigliava sui marciapiedi
assolati. Questo nostro paese è più bello a sognarlo che a
viverci dentro.
I meridionali faranno la rivoluzione? E' inevitabile. Forse circola già
fra noi, incognito, un Campanella, un Masaniello, un Fabrizio Ruffo, un
Fra Diavolo: solo Dio sa chi. Ma è ancora più probabile che
- ancor prima - sarà il mondo a caderci addosso.
°°°°
Diversamente da Marina
Salvadore, io non soffro la nostalgia della mia terra. Ci vivo dentro.
E non so bene se sia una fortuna o una sfortuna. Certo una sfortuna per
i giovani senza un lavoro. Ed il mio unico principio politico sono loro.
Lo spirto guerrier, che ancora può ruggire nella carcassa catarrosa
d'un vecchio, non accetta la nostra sconfitta, la nostra impotenza, le
loro speranze frustrate.
E c'è poi il problema del mondo che avranno, se e quando otterranno
il lavoro. E' poi vero che qui si opera a ritmi pacati, fin troppo rallentati,
inaccettabili per una soddisfacente modernità? L'angustia di non
avere tempi diversi, ritmi più veloci, pervade la gente, ciascuno
di noi. Marina Salvadore rifiuta come estraneo, imposto con la violenza,
il modello che incombe con la sua presenza tetramente rovesciata sulla
nostra/loro futura esistenza.
Per la Salvadore non è solo la rivendicazione della libertà
del produttore - un fatto che solo l'indipendenza nazionale consentirebbe
- a spingerci a contestare l'Italia restante, ma soprattutto un'esigenza
di vita cristiana, morale, umana. Un concetto di cui anche l'ateo avverte
fino in fondo il peso, il valore, il pressante bisogno che si avveri.
Certo è ridicolo immaginare che non ci sia mai stato al mondo un
re migliore di Ferdinando II. Ma il vero Ferdinando non c'entra con il
nostro doloroso dramma, anzi con la nostra tragedia. Ferdinando è
un totem, un re immaginario del nostro sperato paese. A casa nostra dovremmo
comandare noi. Certo, una volta liberi, in casa non sempre regnerà
il sereno. In passato ci furono grossi litigi. E quanti! In queste occasioni
il vicino di casa ci metteva non solo lo zampino, ma tutte le quattro
zampe. Alla fine, però, in un modo o nell'altro, come in ogni famiglia,
la lite si ricomponeva. Il vicino rientrava a casa sua e noi tornavamo
a essere padroni di decidere se mangiare in cucina o in sala da pranzo.
Oggi questo ancestrale potere - incluso quello di modellare gli animi
- che ogni nazione di ogni tempo ha avuto su di sé e sul proprio
territorio, è come se fosse evaporato, svanito in fitte cortine
di fumo, in spesse e padane nebbie. Cavour ha fatto strame di questo potere
che la natura e la storia ci avevano dato. I suoi successori, certamente
meno furbi, e perciò meno cauti, hanno fatto ancora di peggio.
Non vorrei mancare l'occasione per celebrare Alcide De Gasperi, Luigi
Einaudi, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Ugo la Malfa, che, con un sapiente
e patriottico gioco di prestigio politico, hanno trasferito ai signori
Agnelli & C. il valore delle amlire che generosamente gli americani
avrebbero voluto restituire a noi, che le avevamo prese in cambio delle
merci e dei servizi conferiti alle truppe d'occupazione.
La vita unitaria è stata, ed è ancora, una beffa continua.
Non sono di idee monarchiche. Sono un marxiano convinto. Credo in una
società di eguali e di giusti, ma ultimamente ho imparato che ritrovare
le radici politiche della nostra antica indipendenza rappresenta un'esigenza
imprescindibile, se vogliamo risorgere. Ma, se il giorno che qui ci sarà
un nuovo Manfredi, ancora ci sarò con la spada sguainata in pugno,
gambe o stampelle permettendo, gli andrò dietro con entusiasmo
e senza alcuna riserva ideologica.
°°°°
Non conosco Marina Salvadore
di persona, ma da quando internet mi fa arrivare sotto gli occhi i suoi
articoli contemporaneamente incazzati e ragionati, aggressivi e argomentati,
posso dire che provo nuovamente l'emozione del fans politico.
Cara e impertinente Marina - tanto più cara quanto più dissacrante
- non sciupo inchiostro per augurarLe altre fortune giornalistiche. Queste
Le ha già per violenza vesuvina della Sua stessa natura. Le auguro
piuttosto che possa tornare a Napoli e a Capo Miseno, ché è
ciò che il Suo cuore terrone desidera.
Siderno, 3 giugno 2002 Nicola Zitara
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