Sono
convinta del fatto che i “critici” – in ogni settore dell’arte – sono
soltanto degli artisti falliti, magari un po’ invidiosi del genio
altrui e – perché no? – politicizzati oltremisura, nell’elevare al
cielo o sbattere nell’immondizia, con il loro lapidario giudizio vitae
et necis, singolarmente gli autori più che le loro opere.
Sull’onda di un astratto concetto di “intellighenzia”, di “intellettualismo
ad oltranza”, laddove non v’è ateneo al mondo che riconosca tali titoli
e requisiti e – tantomeno – ne conferisca il “dottorato”, il business
dell’arte, così come è accaduto per il calcio e per la politica, ha
spesso scoperto e imposto nuove stelle ma, in maggior parte, ha volontariamente
creato nefaste comete e meteoriti, finite nel buco nero del Nulla.
Forse, per mancanza di fondi o…di padrini.
Nel
momento in cui un’opera suscita nel comune mortale delle sensazioni, l’uomo
comune diventa il critico d’arte più affidabile.
Della
crisi del Teatro se ne parla da più tempo, rispetto alla crisi del Cinema; si
ha la netta sensazione che questa crisi sia politicamente stazionaria, utile
a consentire la ribalta ai “soliti noti”, finanziati abbondantemente, pappa e
ciccia con certe istituzioni, perché, a seconda del regime imperante o dei
moti reazionari dell’opposizione al regime, questi “garanti” della Kultura
riescono ad imporre gusti e tendenze, a lanciare messaggi subliminali
devianti, a “fare politica”, insomma. E l’Arte dov’è in tutto questo?
Qui,
vogliamo parlare di Arte vera nel Teatro, per doveroso omaggio al nostro
Giambattista Basile, madrigalista, commediografo, canzonettista nella lingua
letteraria allora alla moda a corte, che “invento’” il teatro in lingua
napoletana, a cavallo tra il 1500 ed il 1600, con il suo “Lo cunto de li
cunti”. Ed apriamo questo capitolo
teatrale parlando di:
“GESUALDO”
di Luca TORRE
Altri
non è, Gesualdo, se non quel Carlo Gesualdo da Venosa, madrigalista eccelso che purtroppo è passato alle cronache
morbose ed inciucèsse della storia solo in virtù di un fatto di “corna” e
dell’assassinio di donna Maria d’Avalos, sua moglie, e del di lei amante,
Fabrizio dei principi Carafa, piuttosto che per le eccelse composizioni
digitate sul suo “leuto” (liuto), avvolto in un’aura magica, quando era usato
da lui, che è vissuto in un tempo in cui tutto era intessuto di fiabesco
assieme al fantastico cavallo bianco unicorno, alla Bella ‘Mbriana, al
Munaciello, ed ai poteri magici delle piantine di cetrangolo, evocati dalle
janare (strega, arpia, brutta e malefica) nelle pratiche dei legamenti
d’amore (Napoli, infatti, a differenza di Torino patria della magia nera, è
la patria della sessuale Magia Rossa). E’ sintomatico il fatto che la musica
del “nostro” Carlo Gesualdo, che ha influenzato autori come Wagner e
Schoemberg incredibilmente non si trova nel tempio maggiore del Conservatorio
di San Pietro a Majella ma in Germania e l’opera di Luca Torre vuole essere
di sprone, principalmente, al recupero ed alla rivalutazione della nostra
identità culturale, restituendo dignità ed orgoglio alle arti nobili ed ai
nobili esponenti di questa, finiti nella polvere dell’oblio, emigrati anche
loro ovvero i loro fantasmi verso terre lontane, com’è destino – dal tempo
dei tempi – di chi ha avuto la provvida sventura di nascere sotto il cielo
affatato del Mezzogiorno , laddove il sacro mantra “ne-mo- pro-phe-ta- in
–pa-tria” è la maledizione costante ed in virtù della quale Napoli e le sue
Arti sono, però, divenute note in tutto il mondo.
Non
staro’ qui a descrivervi la complessa messinscena dell’opera: compito
devoluto all’intellighentia pratica (senza anima, pragmatica) dell’IDI
(Istituto del Dramma Italiano) che ne propone una scheda di giudizio di ben 5
pagine, laddove qualche “superficialità di giudizio” si appalesa, in special
modo nei riguardi dell’autore, ritenendo inutili, di questi, le due paginette
di introduzione alla lettura del copione. Probabilmente, nell’immonda
globalizzazione post-risorgimentista dei costumi e delle arti, non si tiene
conto – da parte degli acclarati “intellettuali” – che quella nota
introduttiva è NECESSARIA, soprattutto a chi, nell’Italia unificata e
globalizzata, ha smarrito i lumi della sapienza e nulla sa dei primati
artistici di un antico popolo meridionale; laddove il Teatro Partenopeo per
eccellenza è invece ordinatamente indicato in quello moderno di Eduardo, che
ha fatto la sua fortuna sfruttando il vittimismo di cui accusano il nostro
popolo, i soliti luoghi comuni sulla meridionalità e, ancor più, le sole
miserie umane che parrebbero imputabili al SOLO popolo partenopeo! Ci si
dimentica persino, nelle antologie, di ricordare gli “ascendenti”, quali
Scarpetta e Petito. Napoli, dall’era moderna, è la mortificata Napoli di
Filumena Marturano e del Sindaco del rione Sanità, insieme agli orpelli
lirici ed amorali di un certo Curzio Malaparte né “La Pelle” o di un Cristo
che si fermo’ ad Eboli, per disperazione!
A
tal uopo si confida nella volontà della “Luca Torre Editore” in Napoli di
voler al più presto dare alle stampe il copione che, talmente avvincente, si
scorre in lettura come un intrigante romanzo-storico.
Cio’che
“attizza” in questo dramma che l’IDI definisce commedia è il linguaggio
musicale dei testi: pensieri che sono strofe di madrigali, parole che sono
note musicali. Dalla “volgarità” (riferita esclusivamente a “volgo”,
popolino) delle Atellane alla raffinatezza dei Madrigali , sul filo di una
colonna sonora incredibilmente colta, dal “basso” verso l’”alto”, in un
excursus prorompente della vitalità tipica della nostra Cultura Partenopea.
Tutto, in soli due atti! Ma due atti che paiono essere messi in scena con la
tecnica di un caleidoscopio, dove ben tre scene in contemporanea, cambiano di
tempo, di affabulazione, di suoni e di colori, di sacro e di profano, di
musiche e di “umore”. Un’opera, questa di Luca Torre, davvero grandiosa, che
non ha eguali, laddove anche il sapiente e celebrato maestro De Simone
rischierebbe il suo tronetto di sovrano del Teatro Napoletano.
In
questa sede ci sembra più opportuno – considerato che per grazia di Dio siamo
“volgo” e non ci fregiamo del titolo di “critico d’arte” – sintetizzare ciò
che si legge tra le note del dramma, tra le righe del suo canovaccio. E’ la
stessa maschera del Pulcinella in “Gesualdo” a proporre saggiamente la “nota
critica” ai….”critici” : “Io saccio chello che saccio e chello che nun saccio
nun saccio. Tu invece saje chello che nun saje e nun saje chello ch’avesse
sape’!”. Ebbene, si dovrebbe sapere, affrontando il tema del Teatro
Napoletano d’autore, che Napoli va affrontata e studiata sul filo della
“carnalità” ; non a caso quest’aggettivazione insolita qualifica esclusivamente
la tempra e la procacità del feminino napoletano. Solo il feminino napoletano
indossa come una calza la carnalità ch’è fatta di lapilli del Vesuvio, di
terra fertile dei campi Flegrei, del vento di scirocco, del sale del misogino
mare odisseo e del fuoco del sole del terribile e magnifico cielo partenopeo
ma soprattutto delle intemperanze selvagge di questi elementi naturali, che
finiscono col caratterizzare fortemente la genìa autoctona. Gli indigeni!
La
stesura di “Gesualdo” è erotizzante e carnale, sfiora picchi di “volgarità”
morbosa di un inferno dei sensi…poi si eleva nella sublimazione di questi, in
un erotismo colto e più raffinato, laddove la “femmina” , Maria d’Avalos, è
sacerdotessa e schiava, nello stesso tempo. La carnalità strisciante, l’erotismo
quasi mistico, si mescolano alle morbosità più terrene e diaboliche. Nel
complesso, si genera un’onda di sensualità, fluttuante tra l’acre e pungente
odore del mare in tempesta ed il purificante aroma dell’incenso, in una
sarabanda tra sacro e profano, tra il misticismo e il peccato che solo chi è
nato all’ombra del Vesuvio e sotto il cielo di Napoli, solo chi pratica il
culto delle “anime puverelle del Priatorio” riesce ad “annusare” nell’aria.
“Gesualdo”
è sapiente opera di “spirito” più che di solo genio artistico; di quello
spirito antico che ancora aleggia e si diffonde sulla “natura” della nostra
napolitudine.
Ma
al di là del gioco sottile di arcana seduzione e di suggestive percezioni
ancestrali, “Gesualdo” si spinge nel revisionismo storico, con personaggi
autenticamente esistiti, che si muovono nella trama intessuta da fatti
storici certificati e documentati da inoppugnabili fonti e tenta di
esorcizzare, al di là dei secoli, le figure di vittime e carnefici,
inquadrati e inamovibili nella leggenda popolare, al pari dei tanti luoghi
comuni spirati dall’”inciucio” sulla napoletanità degli usi e dei costumi. La
“perfida” Maria d’Avalos trova qui il suo minimo riscatto, mettendo bene in
chiaro – l’autore – ch’ella fu vittima di un piano politico preordinato dai
Gesuiti, nonché vittima dell’invidia e gelosia che – da quando è nato il
mondo – una donna “carnale” e bella, solare e passionale è destinata a
patire. Donna Maria d’Avalos come Lucrezia Borgia? Probabilmente, sì.
Inconsapevoli di “spargere sesso”, come Stefania Sandrelli, con la loro
generosa procacità , spesso equivocata.
Marina Salvadore
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